martedì 29 marzo 2011

Le Lucertole salveranno il mondo

La chiamavano Albertina per via della sua affinità in follia con Albert Einstein, non certo per il genio, ma in realtà si chiamava Filomena. Un chierico l’avrebbe definita “una semplice”; possedeva l’innocenza del fanciullo, che magnanimo e spietato è tanto fornito di senso di giustizia quanto sfornito di indottrinamenti critici.
La conobbi quando lavoravo al nosocomio di Frittole. Il suo essere totalmente scevra di malizia le procurava qualche rogna, ma anche qualche privilegio… e soprattutto ti disarmava. La sentivi arrivare con la sua risata argentina; se non fosse stato per la divisa blu che portava, avresti scommesso che fosse una fuoriuscita della psichiatria.
A Frittole c’era sempre stata. Aveva iniziato a fare le pulizie e poi, piano piano, come usava allora, era passata a dare le colazioni, fino a svolgere attività ausiliarie all’assistenza. L’occhio esperto la faceva più centrata di tante laureate tanto che lo stesso primario, medico talmente ispirato da ideali umanisti che gli venivano attribuite qualità di santità e veggenza, la teneva in alta considerazione. Tuttavia le voci più maligne attribuivano queste simpatie ai tiri che l’Albertina tirava alla kapo_sala, la quale un tempo era stata la fidanzata del dottore e poi invece aveva optato per un fisso connubio con un infermiere dei nostri, nonché per una figlia e tutto ciò che ne consegue. La kapo -già preda delle mire del collega- aveva rotto col primario, il quale per vendicarsi si era fatto beccare nel suo ufficio a leggere il giornale, ma allietato, sotto la scrivania, dalla compagnia di una promotrice farmaceutica; quando sentì aprire la porta scostò il giornale, che teneva aperto non si sa se leggendo o no e disse alla sua ormai ex: “Mai fidarsi dei rappresentanti”. Chi si stesse chiedendo precisazioni circa la santità di cui sopra si fa presto a spiegare, grazie alle teorie umaniste e umanizzanti di cui il profeta si faceva portatore. Tra i suoi paladini si rintracciano San Francesco (che parlava agli uccelli come lui parlava alle passere), Francis Crick e James Watzon (che con la scoperta del DNA lo dichiararono “non colpevole” in 34 cause di presunta paternità), Franco Basaglia (che liberò i geni dalle prigioni) e Rocco Siffredi (con cui condivideva l’amore per le patatine).
Il fatto che la kapo_stalla avesse già ceduto alle avances di qualcun altro costituiva per l’Albertina una preterintenzione, configurava il passaggio da colpa a dolo insomma e quindi appoggiava l’evasione con la taccatissima e intayeurata promoter.
In realtà l’odio verso la Kapo_scala risaliva a molto prima, agli anni di “gomito a gomito” nella “trincea”, come soleva chiamare il reparto. Altri nomi che usava per il luogo di lavoro erano: “Lager”, “porcilaia”, “scannatoio”, “baracca”, “catapecchia”. Per quanto riguarda il primo, espresse questo concetto dipingendo a caratteri cubitali la scritta “Arbeit macht frei” sull’entrata; non fu mai scoperta perchè nessuno immaginava che conoscesse il tedesco o la storia di Auschwitz, ma toccò comunque a lei cancellare via la vernice dal muro, dato che per quei lavoretti era lei l’addetta.
Ma come darle torto? Anche in questo era netta e precisa, come la verità che ti spiattellava sempre davanti, senza se e senza ma.
Chiamare quel posto lager, dopo il III Reich era come fargli una carezza. 30 pazienti, tutti dagli ottanta anni in su, tutti col femore rotto, o col femore e l’omero, o col femore e il setto nasale, tutti da alzare in poltrona e tutti da rimettere a letto, e c’eri solo te con l'Albertina a governare quell’orda di indemoniati, senza poter bere un goccio d’acqua, senza poter andare una volta in bagno. Quando entravi guardavi l’orologio solo per sapere quanto ti mancava a uscire e quando uscivi ti sembrava che un treno ti avesse investito, e l’unica forza che ti rimaneva era quella per trascinarti nel letto, spengere la luce e buonanotte! Avevi a che fare con persone disorientate, che di giorno ti guardavano dicendoti “Sei un angelo”, ma appena gli facevi vedere le pillole niente da fare, serravano le dentiere e prima di mezz’ora suonava a picche. E la notte invece ti chiamavano “puttana”; ricordo come fosse ora una performance dell’Albertina con uno di questi soggetti; stavamo sistemando una signora per la notte, ripiegando lenzuoli e copriletto; il figlio, dato che il giorno seguente l’avrebbero dimessa, era disperato e ci aveva detto: “Mercoledì sera guardate ‘Chi l’ha visto?’ perché io scappo via! Come fo’ a casa con questo demonio???” (“demonio” era ovviamente riferito alla madre). La signora non sembrava assolutamente incline al sonno, quanto alla chiacchiera e ci apostrofava con epiteti di vario stampo; i più alludevano a “donne di malaffare”; al terzo “Puttane!” L’Albertina nel suo calmo e saliente candore rispose “Magari! Si stava meglio noi e loro a quest’ora!”
Mi ammoniva sempre: “Quando lavori qui, da quanto te lo mettono nel culo, ti nascono nuovi orifizi!”
Lavorare con lei, sebbene in quel guazzabuglio, era tutta un’altra cosa.
Come se non bastasse di giorno, alla presenza della kapo e proprio in virtù di questa, il rompimento di coglioni e il da fare aumentava esponenzialmente. Il suo atteggiamento di ingerenza continua mentre eri già nella merda (letteralmente) fino al collo, per questioni futili e non prioritarie, avvalorava caldamente le tesi di chi sosteneva che fosse stata originariamente un’ostetrica, che le era caduto un neonato e che si fosse comprata il diploma di infermiera; così come il suo sguardo di cernia fritta che faceva si che tu ti chiedessi “Ma la lobotomia quando gliel’hanno fatta?” andava a favore delle medesime ipotesi.
Ma l’apoteosi esplose con l’arrivo di una legge regionale che prevede che nessun parente/convivente possa, nelle aziende sanitarie, lavorare nello stesso dipartimento in rapporto reciprocamente gerarchico L’Albertina si fregò le mani e pensò che giustizia sarebbe stata fatta. Ma l’azienda copriva kapo e consorte… e così alle ferie di lei corrispondevano giorni di recupero ore per lui, oppure per i festivi lui non lavorava mai. L’Albertina si incazzò, vedendo che le regole c’erano e che non venivano fatte rispettare, e architettò un regolamento di conti. Non tagliò le gomme delle auto degli interessati, semplicemente attese paziente l’arrivo della primavera. Con il caldo le lucertole cominciarono a rimettere la testolina fuori dalla tana. Lei ne acchiappò una e attese di lavorare nel turno di notte, quando entrò di soppiatto nella stanza della Kapo sistemò la bestiola nel cassetto della scrivania. La ripose delicatamente con un santino di sant’Antonio da Padova protettore degli animali (o almeno lei credeva così) e continuò il suo lavoro. Smontò dalla notte e placida andò a fare colazione nel bar antistante l’ospedale, giusto sotto le finestre del reparto. L’attesa fu premiata: sentì chiaramente le urla. Chi assistette alla scena dice che la Kapo saltò sulla scrivania schiacciando sotto i piedi la tastiera del pc. Chiamò furibonda la direzione e la ditta delle pulizie. L’Albertina andò a casa e si addormentò col sorriso sulle labbra.

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