mercoledì 25 marzo 2009

Meglio un fagiano oggi che una gallina domani

Franco è un mobiliere spaziale, un artista; come tale ha i suoi periodi di genialità, che alterna a quelli di caccia a cui si dedica con medesima voracità. Il fagiano e la pialla rappresentano le sue ragioni di vita, ma si direbbe una bugia se si facesse pendere l’ago della bilancia per la seconda e questo, va da sé, ha sempre generato infinite lotte familiari, ma non si pensi alle solite scaramucce da non ci si parla per due giorni, quelle erano guerre con tutti i crismi, con pallottole e tutto il resto: per esempio, all’ennesimo fruttuoso ritorno da una delle spedizioni in mimetica e scorta canina, consegnò il trofeo della battaglia alla moglie Bianca, che - accingendosi a spennare - notando che la bestia era ancora viva cacciò un urlo; il marito, fucile ancora a tracolla, rispondendo, più che al grido muliebre, al richiamo ctonio della piuma svolazzante, impugnò saldo il calcio e premette il grilletto, dalla soglia da cui si trovava, centrando con mira da tiratore scelto l’animale agonizzante; schizzi di sangue contaminarono il volto della donna oltre che alle pareti imbiancate di fresco, essendo la coppia appena tornata dal viaggio di nozze. L’episodio mise subito in chiaro la situazione; confermò alla sposa alcuni sospetti che nel corso degli anni di fidanzamento erano sorti nel suo cuore: quello sguardo fisso in cui ogni tanto Franco scadeva non era dovuto al suo vestito nuovo e inamidato, ma alle placche d’argento che costellavano la sua materia grigia da quando aveva avuto un incidente mentre si dirigeva all’ascolto del canto della sua amata preda; l’aneddoto riempiva le bocche del circolo di paese che cantavano le gesta del tempo che fu, ma lei non ci aveva voluto dar peso; come fidarsi della voce degli ubriaconi, bari e donnaioli? Le malelingue sostenevano che una mattina, all’alba, mentre si dirigeva sparato con il suo camioncino, su cui era caricato un massello di noce senza bolla d’accompagnamento, al suo laboratorio fu fermato dai carabinieri che gli intimarono l’alt chiedendogli perchè mai conducesse il mezzo superando di tanto i limiti di velocità imposti nel tratto dal codice della strada. Franco sarà stato matto, ma non era mica grullo ed ebbe un lampo di genio; non volendo che lo perquisisse, cercò di tagliare corto e la risposta che dette fu la seguente: “Vo’ a sentì cantà i’fagiano”. L’ufficiale, sbalordito e solo fece tanto d’occhi e scosse il capo come a mandarsi via dalle orecchie qualcosa che non gli facesse sentir bene ciò che ascoltava e chiamò il compare, impegnato nel controllo di patente e libretto, perchè Franco ripetesse davanti a testimoni ciò che aveva già detto. Il falegname non solo ripetè la formula, ma graziò il paio con il saggio del verso del pennuto, da cui si apprese che il fagiano fa “Cò-Cò”. I due in divisa si guardarono sorridendo, riconsegnarono i documenti e lo lasciarono passare, massello in salvo. L’entusiasmo di averla scampata bella gli fece pestare a manetta l’acceleratore. Si ribaltò alla seconda curva. Sono convinta che a quel punto il fagiano sarebbe andato ad ascoltarlo davvero, ma dovette aspettare di uscire dalla convalescenza. Come faceva l’ingenua Bianca, più candida del suo nome (da far impallidire il sommo Voltaire, è tutto dire), a dar credito a quei perdigiorno, sempre col bicchiere in mano, a guardare i culi delle bottiglie e delle femmine circolanti, non era possibile che il suo Franco, lo sguardo fisso su di lei tutta la sera, che dopo tanto esitare l’aveva impegnata per una mazurka, il suo ballerino provetto, fosse capace di tali prodezze, un ragazzo così distinto... Dove s’era mai visto uno che rispondeva coì ai carabinieri? Non scherziamo, per favore! Tardò a rendersi conto. L’artista era pazzo dei cani, più geloso di loro che della moglie e con un esemplare in particolare aveva un rapporto viscerale, il setter Ronda; basti pensare che alla morte del quadrupede Franco erse una tomba in giardino e ancora oggi quotidianamente vi depone omaggi floreali; la coniuge non ha mai ricevuto, in 40 e passa anni di onorato matrimonio un mazzo di fiori. Ma anche qui la voce del volgo aveva dato le sue anticipazioni: si narra, tra un moccolo e una briscola, che, in una trasferta di caccia, rigorosamente al fagiano, in Lazio, Franco dovette pernottare in albergo; lì non accettavano i cani, ma lui fu categorico: “O la Ronda dorme con me, o un se ne fa’ di nulla” in un aut-aut kierkegardiano difficilmente eludibile. I tempi di magra costrinsero il recepcionist ad attrezzare di branda la singola con bagno prenotata dal nostro, ma anche in questo caso sicuramente erano i troppi gradi del novello trangugiati da quei bifolchi a infiorettare l’aneddoto di colossali bugie. Come fidarsi di chi considerava l’alcol indifferentemente salutare contro caldo, freddo, inflazione e governo? Si arrese solo, Bianca, all’arrivo della finanza; era una mattina d’estate, non certo i tempi di condoni fiscali; Franco non era certo tipo impressionabile con sgommate nel piazzale quelle con cui parcheggiarono le fiamme gialle, di freno a mano; anche quando intimarono di esibire le fatture Franco non fece una piega, serafico, quasi docile, ma alla sua ora scattò la molla del suo orologio interiore e non ci furono cristi. Dopo aver sciorinato in dettaglio il fatturato della ditta, che sapeva a mente con la precisione di un autistico, e dopo aver ammonito i funzionari che non avrebbero trovato nulla di irregolare dato che le sue conoscenze di contabiltà gli erano state trasmesse da un vecchio ragioniere del comune, venuto lì a nascondersi per mesi temendo la gattabuia per storie di evasioni prodotte nei suoi anni divisi tra prestazioni municipali e collaborazioni con la mala, si congedò passando la palla alla sua Bianca: doveva andare assolutamente “al fagiano” dato che stavano per mietere il formentone, condizione successivamente alla quale la caccia al volatide si sarebbe resa impraticabile.

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